Dà maggiore capacità di Problem Solving e di interpretare la realtà per sviluppare meglio la mission aziendale: ecco perché l’eterogeneità all’interno delle imprese è sempre più un valore aggiunto.
Riuscire a creare un clima lavorativo inclusivo, che sappia valorizzare differenze di etnia, età, genere, abilità, formazione, personalità ed esperienze di vita in modo che ognuno possa sentirsi coinvolto e rispettato, è una delle chiavi per la crescita delle imprese, come dimostrano casi di successo quali Apple o Disney, che da tempo adottano strategie di inclusione globale.
Al contrario, imprese gestite da gruppi troppo omogenei rischiamo di essere meno aperte ai cambiamenti continui, perdendo in competitività.
L’inclusione fa bene all’azienda: lo studio
Nell’ambito di “Global Inclusion – Generazioni senza frontiere”, la manifestazione organizzata lo scorso settembre dal Comitato Global Inclusion-Art. 3 in collaborazione con “Insieme per il Lavoro”, Deloitte ha presentato i risultati di una ricerca sul tema condotta analizzando 450 aziende globali. Secondo lo studio, i flussi di cassa per collaboratore delle imprese gestite da gruppi eterogenei sono 2,3 volte più elevati sui tre anni rispetto a quelle prive di un modello di leadership inclusiva.
Inoltre, nei team diversificati risultano potenziate la reattività di fronte ai cambiamenti e la capacità di implementare soluzioni. Nel governo della complessità, infatti, questi gruppi prendono decisioni migliori fino all’87% delle volte, sfidando lo status quo e i paradigmi che impediscono il cambiamento e la trasformazione digitale delle imprese.
Le differenze di pensiero, poi, stimolano la creatività, migliorano del 20% la capacità d’innovazione dell’azienda e permettono ai gruppi manageriali di identificare i rischi, riducendoli del 30%. Ciò accade innanzitutto perché i team eterogenei riescono a cogliere meglio le sensibilità e le esigenze dei diversi stakeholder.
Non da ultimo, le persone sono più produttive se si trovano a lavorare in un ambiente in cui sono accettate e valorizzate anche per le loro specificità.
La risposta del mercato: vince chi è inclusivo
Essere inclusivi genera crescita anche perché il mercato è molto attento a questo aspetto. Il 74% dei consumatori, infatti, sceglie con convinzione o preferisce proprio i brand inclusivi. E le aziende che si muovono verso l’inclusività registrano una crescita fino a +20% dei ricavi.
Lo rileva la seconda edizione del Diversity Brand Index, progetto di ricerca condotto da Diversity, associazione impegnata nel diffondere la cultura dell’inclusione, e Focus Management, società di consulenza strategica. La ricerca ha raccolto le valutazioni di 1.035 cittadine e cittadini che hanno citato e espresso le loro opinioni su 453 brand.
I risultati dicono che i brand inclusivi generano un Net promoter score (il cosiddetto Nps, ovvero “indicatore del passaparola“) più alto rispetto a quelli non inclusivi, con un forte impatto sia sulla reputazione aziendale che sulla fiducia da parte dei consumatori, più propensi a consigliare un brand percepito come inclusivo.
Al contrario, per le aziende percepite come non inclusive l’Nps scende fino al -81,8% (rispetto al -43% registrato nel 2018): numeri che dimostrano come adottare modelli inclusivi di management e leadership stia diventando sempre più essenziale per le imprese.